La quotazione come strumento per il passaggio generazionale: azioni con voto plurimo

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Come evidenziato in un precedente intervento, la perdita del controllo ha rappresentato - e rappresenta ancora oggi - uno dei principali “ostacoli” alla decisione degli imprenditori italiani di rivolgersi alla borsa (dunque al capitale di rischio) per finanziare lo sviluppo della propria azienda, in luogo del “tradizionale” ricorso al canale bancario (dunque al capitale di debito).

Invero, con il dichiarato obiettivo di favorire le IPO (Initial Public Offering), il Legislatore italiano ha, già da tempo, fornito un’efficace soluzione al problema prevedendo specifici meccanismi di “potenziamento” del voto: maggiorato per le società quotate e plurimo per quelle non quotate, archiviando definitivamente il principio del “one share-one vote”.

È opportuno subito specificare come, rispetto alla dicotomia dianzi prospettata (quotata non quotata), rientrino nell’alveo delle società non quotate (in mercati regolamentati, ai sensi del TUF) anche quelle imprese le cui azioni siano oggetto di scambio in cd. sistemi multilaterali di negoziazione (cd. “MTF” Multilater Trading Facilities) che - come noto - costituiscono sistemi di negoziazione alternativi ai mercati regolamentati di tipo multilaterale; in Italia, in particolare, l’ex AIM (Alternative Investment Market), oggi EGM (Euronext Growth Milan).

Pertanto, per il tramite del voto plurimo, l’ordinamento giuridico garantisce anche alle aziende che intendono quotarsi nel mercato (non regolamentato) delle PMI - in luogo del più “oneroso” (in termini sia economici che di compliance) mercato (regolamentato) “principale” - la possibilità di aumentare, in sede di IPO, la dimensione del flottante (dunque la provvista finanziaria) senza determinare, per gli azionisti di riferimento, una diluizione proporzionale in sede assembleare, comunque inevitabile quale diretta conseguenza dell’ingresso del cd. “mercato” (i.e. nuovi azionisti investitori) nel capitale della società.

L’articolo 2351 cod. civ. consente, infatti, la creazione di azioni con diritto di voto plurimo sino ad un massimo di tre voti per ciascuna azione.

Non viene, peraltro, posto alcun limite rispetto al rapporto tra azioni ordinarie e azioni con voto plurimo, essendo, dunque, possibile “configurare”- prima della quotazione - un capitale sociale caratterizzato da una forte presenza di azioni a voto plurimo con l’obiettivo dimassimizzare l’effetto anti-diluitivo.

L’utilità dello strumento è testimoniata dal suo utilizzo tutt’altro che isolato, anche considerato che, per come è concepito e strutturato l’EGM, l’investitore non è particolarmente interessato alla scalabilità dell’emittente ma, piuttosto, alla sua crescita - potenzialmente più vigorosa in funzione di una raccolta più consistente, proprio per effetto del voto plurimo.

Lo strumento assume ancora più valore in considerazione del fatto che non è nemmeno ostativo ad un eventuale cd. translisting.

Infatti, in caso di “passaggio” dall’EGM al mercato (regolamento) “principale”, l’articolo 127-sexies, comma 2, TUF consente il “mantenimento” (rectius la non conversione automatica in azioni ordinarie o a voto maggiorato) di tale categoria di azioni (in quanto preesistente), seppur non più “adatta” al nuovo contesto regolamentare che, per l’appunto, rispetto a tale necessità, offre la possibilità del voto maggiorato, invero solo apparentemente sovrapponibile al voto plurimo in termini di diritti attribuiti al socio.

A parte l’aspetto quantitativo (fino ad un massimo di due voti per ciascuna azione), il voto maggiorato è essenzialmente volto a premiare la “fedeltà” dell’azionista che detiene stabilmente la propria partecipazione in un’ottica di investimento di medio-lungo periodo, mentre le azioni con voto plurimo sono strutturalmente dotate di un meccanismo di potenziamento del voto non “richiedendo” alcunché all’azionista proprietario.

Da ultimo, si evidenzia come, anche in assenza di quotazione, il voto plurimo possa rappresentare egualmente uno strumento utile per agevolare i processi di aggregazione societaria che, al pari della borsa (ancor meglio se in concomitanza con la borsa), sono volti a garantire uno sviluppo sostenibile dell’impresa.

Con le azioni a voto plurimo, quindi, la costituzione di una “Holding di famiglia” appare ancor più conveniente e duttile rispetto a quelle che sono le eventuali esigenze a supporto del passaggio generazionale; i quorum di cui all’articolo 177, comma 2 e comma 2 bis, sembrerebbero, in assenza di esplicite limitazioni legislative ovvero di prassi, raggiungibili con minori quantitativi di azioni; se è vero, come è vero, che i citati commi esplicitamente si riferiscono alla “percentuale di diritti di voto esercitabili nell'assemblea ordinaria”.

Con le azioni a voto plurimo tale percentuale è raggiungibile con un minore quantitativo di azioni, soddisfando una maggiore platea di eventuali eredi o delfini designati; senza dover eventualmente ricorrere all’istituto del patto di famiglia che, per la sua complessità, ha riscosso poco successo tra gli imprenditori, soggetti economici di PMI.

Viene altresì da chiedersi se, in sede di valutazione delle azioni, ai fini della determinazione del valore fiscalmente riconosciuto, tali azioni con diritti particolari debbano essere valutate diversamente rispetto alle azioni ordinarie. Alla risposta, che appare subito positiva, occorre approcciarsi con attenzione per quello che riguarda invero, il quantum; nelle perizie di rivalutazione, il redattore dovrà porre particolare attenzione in caso di presenza di questo particolare tipo di azioni.

Ovviamente, la perizia a cui ci si riferisce è quella che (ormai senza soluzione di continuità) dal 2000, il legislatore fiscale consente quale opportunità di rivalutazione del valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione stessa, ai sensi delle disposizioni contenute dagli articoli 5 e 7 L. 448/2001.

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